Una “leonessa” palestinese mette le cose in chiaro

Notizia

CasaCasa / Notizia / Una “leonessa” palestinese mette le cose in chiaro

Aug 14, 2023

Una “leonessa” palestinese mette le cose in chiaro

“They Called Me a Lioness: A Palestinian Girl’s Fight for Freedom,” by Ahed

"Mi chiamavano leonessa: la lotta per la libertà di una ragazza palestinese", di Ahed Tamimi e Dena Takruri, One World, settembre 2022, pp. 288.

Una ragazza può, a quanto pare, rappresentare una minaccia così grande per uno Stato da sentire il bisogno di inviare orde di soldati – notte dopo notte – a invadere la casa della sua famiglia, impiegare tutti i mezzi per spaventarla e umiliarla, e alla fine incarcerarla e degradarla. per mesi. Aveva portato in questo stato una tale minaccia che, nel dicembre 2017, i soldati armati che arrestarono questa ragazza "minacciosa", scattarono selfie con lei, distribuirono parolacce crudeli e la trattarono come "la loro preda del giorno".

Non era la prima volta che l’attivista palestinese Ahed Tamimi, che aveva appena 16 anni quando fu detenuta, subiva un simile trattamento. La sua famiglia è rinomata per aver guidato proteste settimanali non violente contro l'occupazione militare israeliana nel villaggio di Nabi Saleh, nella Cisgiordania occupata, attirando palestinesi e alleati da tutto il mondo a partecipare di fronte alla repressione dell'esercito israeliano. Prima che Ahed fosse arrestata, anche suo fratello era stato arrestato due volte, suo padre nove volte e sua madre cinque volte e una volta avevano sparato a una gamba.

Nel suo nuovo libro di memorie “Mi chiamavano leonessa”, Tamimi – insieme alla sua coautrice, giornalista e produttrice palestinese-americana Dena Takruri – racconta come il suo schiaffo a un soldato israeliano che si era intromesso nel cortile della sua famiglia fu criticato dagli israeliani. politici, media e pubblico come un atto di “terrorismo”. "In uno Stato che controlla ogni aspetto della mia vita, sono diventata oggetto di una diffusa inimicizia", ​​scrive nella sua introduzione. Con questa e altre storie, Tamimi e Takruri hanno scritto un libro accessibile che è sia deliberativo che didattico, proponendosi di spiegare l’istituzionalizzazione di un violento regime di apartheid giustapponendo la storia nazionale ad aneddoti personali.

Attraverso una scrittura emotiva ed espositiva, gli autori ci mostrano come la storia sia ed sia sempre stata profondamente politica e personale. Mirano a comunicare con un pubblico target che non necessariamente sa molto del contesto storico o sociopolitico della Palestina, ma è desideroso di saperne di più, in particolare coloro che hanno appreso di Tamimi solo attraverso i titoli dei giornali internazionali, pur perdendo il contesto più ampio dietro le sue azioni. e la fissazione ossessiva dei media nei suoi confronti.

"Mi chiamavano leonessa" presenta quindi una narrazione che non è stata interamente o sinceramente coperta dalla stampa, mostrando un lato di Tamimi che la maggior parte di noi altrimenti non avrebbe visto: una giovane ragazza riservata, protettiva nei confronti dei suoi fratelli e ribelle al coprifuoco. e studiare, come qualsiasi altro bambino.

Ma le circostanze di Tamimi sono tutt’altro che ordinarie. Sottolineando la natura malaticcia e ciclica dell’infanzia sotto il peso dell’occupazione, Tamimi illustra la misura in cui la violenza militare israeliana è stata normalizzata nella società palestinese, e come il trauma che ne risulta si riversa nella vita quotidiana dei bambini, compresa la sua.

Un chiaro esempio citato nel libro è un gioco che i figli di Nabi Saleh amavano di più, chiamato "Jaysh o Arab" o "Esercito e arabi". I bambini si dividono in due gruppi, soldati israeliani e palestinesi, e questi ultimi si dividono in medici, giornalisti e manifestanti. Poi fanno giochi di ruolo con i "soldati" che attaccano i palestinesi, i manifestanti che lanciano pietre contro i soldati, i medici che si prendono cura dei feriti e i giornalisti che intervistano i manifestanti. Essere "arrestato" significa che sei squalificato dal gioco, mentre essere ucciso significa che sei stato "martirizzato" e allo stesso modo espulso dal gioco.

Tamimi racconta come spesso giocavano a questo gioco per ore al giorno, insieme a "Bayt byoot" o "House", dove interpretavano i membri di un nucleo familiare tradizionale. Un gioco riflette la compulsione ad accettare la violenza come routine e la resistenza come involontaria; l'altro, come descrive Tamimi, "esprimeva i nostri sogni di una vita normale".